Storie libri e racconti

Ti regalo un racconto: Il ladro di sogni

Un giorno la mia amica Catia Bruzzo de La Piola Libreria di Catia mi propone di scrivere un racconto in regalo per una raccolta che intende pubblicare, avente per oggetto la promozione del nostro quartiere, Borgo Vittoria, in cui sono nata e cui sono molto legata.

I racconti dovevano avere alcune limitazioni, che ho scoperto poi tutti gli autori hanno interpretato a loro modo: un certo numero di battute, l’ambientazione nella Piola, e il tema centrale, Borgo Vittoria e le sue caratteristiche essenziali.

Non ho avuto dubbi e mi sono subito messa a scrivere. Ne è venuto fuori un racconto duro e dolce come è ormai la caratteristica della mia scrittura, “Il ladro di sogni“, che ha messo in luce ciò che per me è il tratto distintivo del borgo in cui vivo:

l’accoglienza

E intorno all’accoglienza ho scritto questo racconto che oggi regalo anche a voi, in una revisione che preferisco rispetto a quella che ha pubblicato l’editore.

Siete pronti per ascoltare il racconto di Gaia e Kofi?

Il ladro di sogni, un racconto di Elena Ferro

Il ritratto di Elena Ferro ne "La Piola racconta"
Questa sono io, come mi vede l’illustratrice della raccolta, Darinka

Quando la mattina presto percorro a piedi il tratto di via Breglio verso l’ufficio postale in cui lavoro, mi piace guardare le cose immaginando di indossare un paio d’occhi nuovi. Con quelli sono capace di guardare oltre la patina grigia che riveste la mia città e coglierne i colori, quelli che a volte sembra di non vedere più, e non è certo colpa del tempo. I colori cambiano e facciamo fatica a percepirli. Per questo mi alleno ogni mattina a riconoscerne di nuovi, con il mio paio d’occhi supplementare.

Borgo Vittoria mi veste alla perfezione, perché è un quartiere con la vocazione all’accoglienza. I grandi viali di ingresso nella periferia nord della città sono porte aperte sul mondo e per il mondo che mi fanno sentire legata a tutti gli altri, torinesi e non. Cammino sentendo il freschetto delle prime ore mattutine, facendo molta attenzione ai lembi dei marciapiedi pericolosamente sollevati, per non inciampare. Con i miei occhi nuovi osservo i muri scrostati delle case abbandonate e le sterpaglie cresciute sul ciglio delle strade. A volte mi copro il viso con una sciarpa, per non sentire l’odore dolciastro della fabbrica di aromi. Anche questo è il cuore di Borgo Vittoria.

Mi pare di sentire le voci degli operai che riconoscevo da lontano, per via delle loro tute blu macchiate d’olio indosso, quando, al rientro dalla fabbrica, con le loro scarpe malandate e mezzo mozzicone di sigaretta tra i denti, se ne andavano a casa chiacchierando rumorosamente. Non prima però di aver fatto un salto presso la vecchia sede del Partito Comunista, in via Chiesa della Salute, per raccontarsi il lavoro, duro, della fabbrica.

L’altro giorno uno di loro, che ancora conserva il vizio di tenere in bocca il mozzicone spento e non lo toglie mai, nemmeno quando deve chiudere la busta delle raccomandate senza usare la spugna, mi parlava della sua delusione quando, al rientro nel Borgo dopo molti anni, aveva scoperto che al posto della sede del partito c’era una banca. «Segno dei tempi», mi ha detto.

Io allora frequentavo l’oratorio, come la maggior parte di noi. È ancora lì, ma completamente rimodernato. Per mia fortuna indosso il paio d’occhi nuovi, altrimenti non sarei capace di vedere cos’è diventato oggi, un posto in cui per entrare devi pagare un biglietto.

Quando arrivo finalmente in ufficio, ripongo il mio paio d’occhi nuovi nella tasca della borsetta. Che a volte, quando mi sveglio, penso: «Oggi non li indosso, è meglio». Ma poi ci ricasco sempre.

Per fortuna ci sono cose nel quartiere che non cambiano mai, con o senza paio d’occhi nuovi, perché tutto è esattamente come dovrebbe essere.

«Ehilà, Gaia, ben arrivata. Ti preparo un caffè?»

«Grazie Catia, ma fallo doppio. Mia madre ha preparato le lasagne per pranzo, mi sono rimaste tutte sullo stomaco»

«Di nuovo? Cero che ha una fantasia».

Catia è la gerente della Piola Libreria di Catia, che a me piace chiamare librosteria, per via del fatto che puoi bere un buon bicchiere di vino e leggere un libro, addirittura acquistarlo, se ti va, e portarlo via con te.

Nella piola il mio posto preferito è il retro, con i suoi scaffali che tappezzano le pareti della stanza, colmi di delizie per il cuore, la mente e il palato. Ho persino un mio tavolino preferito nel retro del locale. Si trova nel posto più appartato di tutti, dietro il muro che separa la sala lettura dal bancone. Da qui posso ascoltare ciò che succede di là senza essere vista da anima viva. Un vantaggio cui non voglio rinunciare.

«Vai. Gaia, siediti che devo parlarti». Catia accompagna la richiesta con un gesto a scatto della testa, e io, in un attimo, son già di là, al mio tavolo preferito. Lei mi raggiunge con il caffè e un paio di paste di meliga, i miei biscotti preferiti, e si siede accanto a me con aria esitante. Sta fissando con insistenza il volume che ho appena preso dallo scaffale dei libri usati. Ho intenzione di cominciare a leggerlo proprio oggi, se non ha nulla in contrario.

«Posso, Catia?», chiedo indicando il volume pesante e polveroso, «oppure lo hai già promesso a qualcuno?».

«Moby Dick? No, figurati! Pensavo che questo sì che rischia di rimanerti sullo stomaco». Sorrido, perché so che la lettura sarà lunga e a tratti faticosa, ma io ho tanto tempo a disposizione.

«No capisci niente, Catia! È la più grande epopea sul mare mai raccontata. Non ti lamentare. Vuol dire che avrai una cliente fissa in più per il tuo caffè, che è abbastanza forte da farmi sostenere qualunque lettura». Anche Catia sorride e il suo volto si distende, facendo spazio a due piccole fossette agli angoli della bocca.

«Devo dirti una cosa Gaia, ma non so da dove cominciare».

Era ora, penso tra me e me, si capiva lontano un miglio che la faccenda del tomo era una scusa. Mi taccio per ascoltare la novità, ma proprio in quel momento, che disdetta, suona il campanello della porta d’ingresso. Vuol dire che è entrato qualcuno. Dalla voce acuta e metallica riconosco senza ombra di dubbio Marisa, pensionata con la minima e la reversibilità del defunto marito, inspiegabilmente contralto del coro parrocchiale. Sento il rumore della porta del vecchio frigorifero sotto il bancone che si apre. Scommetto che Catia le sta servendo la sua bibita preferita, chinotto con ghiaccio e fetta di limone. Disgustoso.

«Bene, ora finisce di servirle il chinotto e poi potremo finalmente…».

Non faccio a tempo a terminare la frase nel mio cervello che il campanello suona di nuovo. Questa volta la voce che sento non è tra quelle conosciute. Mi concentro meglio, per cogliere ogni dettaglio. Dall’incedere pesante direi che potrebbe trattarsi di un poliziotto, oppure di una guardia giurata. La vecchia Faema ha cominciato a borbottare, forse ha ordinato un caffè.

«Venga, mettiamoci di là, si accomodi dove meglio crede». La voce di Catia sfoggia il suo garbo migliore, mentre, insieme, raggiungono il retro dove sono sistemata io. Non fanno caso a me e si accomodano sul tavolino dall’altro lato della sala. Io inforco gli occhiali per vedere meglio. Il nuovo arrivato ha capelli sale e pepe, non è troppo alto e indossa una divisa rosso fuoco con una grande croce cucita sul petto.

«Che ci fa qui la Croce Rossa Italiana?», mi domando, tra me e me.

Allungo le orecchie più che posso, mentre l’uomo si accorge della mia presenza e mi pare che mi guardi salace. Accenna un saluto, che ricambio. Mi sa che adesso rossa lo sono diventata anch’io.

«Parli liberamente, dottor Conti, la signora è una cara amica. Avrò bisogno anche del suo aiuto per portare a termine questo progetto». Abbozzo un sì con la testa, anche se detesto essere coinvolta in qualcosa di cui non so assolutamente nulla.

«Molto bene, signora Bruzzo, perché non sarà facile. Il ragazzo si chiama Kofi, viene dalla Costa d’Avorio e ha ventinove anni. È stato generoso da parte sua offrirgli un lavoro».

«In realtà avevo bisogno di una mano, sono sola qui e non le nascondo la fatica. Desidero offrire il meglio ai miei clienti e sono sicura che Kofi si inserirà benissimo, a patto che impari a parlare l’italiano decentemente. Qui non siamo molto in confidenza con le lingue straniere».

«Stia tranquilla signora. Il ragazzo parla la nostra lingua abbastanza bene. È qui da più di un anno ormai e da due mesi è ospite del nostro campo. È una persona cordiale e molto riservata. Quanto al lavoro ha idee chiarissime: ci ha detto sin da subito che voleva trovarne uno vero. E adesso, grazie a lei, il suo sogno è diventato realtà».

«Dove diavolo è la Costa d’Avorio?», mi domando, rimpiangendo di non aver studiato la geografia con l’attenzione che merita. Finisco il mio bicchiere d’acqua tutto d’un sorso, mentre Catia e il dottor Conti si scambiano dettagli che riesco appena a decifrare. Capisco che il ragazzo è arrivato su un barcone a Lampedusa e che in seguito è stato trasferito dapprima in un centro temporaneo nel sud d’Italia e poi qui vicino, a Settimo Torinese. Conti dice che potrebbe prendere servizio in Piola già domani. Lo schienale della mia sedia scricchiola forte sotto la pressione del mio peso, abbandonato su di esso. Mentre mi ricompongo, entrambi si alzano e lasciano la stanza. Sulla soglia Conti mi regala un sorriso che mi scuote come una foglia al vento. Avvicino i palmi delle mani alle gote per rinfrescarle un po’ e nascondere il rossore. Poi, finalmente, Catia congeda l’ospite e torna a sedersi accanto a me.

«Era di questo che volevo parlarti, mi dispiace che tu l’abbia saputo in questo modo».

«Ma che dici, Catia? Hai fatto una cosa talmente generosa, sono orgogliosa di te».

«Mah, vedremo Gaia. Tira una brutta aria su questi ragazzi. Sono preoccupata».

«Non sarà facile, questo è certo. Ma almeno, non sei sola». Catia sorride e mi abbraccia forte.

La mattina dopo arrivo alle poste leggermente in ritardo, colpa dei miei soliti incubi che non mi lasciano riposare come vorrei.

La postazione a me assegnata è occupata dalla mia collega Marina, che con una lentezza cosmica sta sbrigando le pratiche delle persone in fila che premono tra l’ingresso e il bancone. Quando mi vedono arrivare, sorridono tutte, sollevate.

«Buongiorno Gaia, finalmente!»

«Buongiorno signora Pina, perché non si siede quando aspetta? Tanto il turno non lo perde, c’è il numeretto».

«Ma io non mi fido di queste diavolerie moderne! Piuttosto, la mia pensione è arrivata?»

«Mi faccia controllare. Sì, c’è già. Che faccio, storno la solita cifra sul conto di sua figlia?»

«Storni, storni. E mi dica, Gaia, è arrivata per caso una lettera per me da parte sua, con francobollo dall’Australia?».

«No, Pina, non ancora. Ma vedrà, il prossimo mese le scriverà, l’Australia è così lontana».

«Lei ne è certa? Io comincio a credere che non succederà mai, ma sono troppo vecchia per desiderare davvero di sincerarmene».

La signora Pina firma gli incartamenti che le ho appena passato sotto la feritoia dello sportello e se ne va mesta, con metà della sua pensione in tasca.

«Quella non se la merita una madre così, disgraziata di una figlia!».

«Hai ragione, Marina. La signora Pina sarà anche anziana, ma mica stupida. Vedrai che il prossimo mese la musica cambia».

«Speriamo che sia come dici, Gaia».

Le incombenze in ufficio sono così tante che non riesco a pensare ad altro che a sbrigare le pratiche accumulate. Avrei voluto consultare una carta geografica sul computer, per capire le tappe del viaggio di Kofi, prima di incontrarlo di nuovo. Ma abbiamo troppe cose da fare e siamo solo in tre, io, Marina e Piermario, il direttore facente funzioni. Dobbiamo arrangiarci. L’anno scorso ci hanno mandato un aiuto, un ragazzo con un contratto a tempo determinato, ma non l’hanno confermato, dicono che siamo in crisi. Oggi però non ho voglia di fare straordinario, ho fretta di andare alla piola. Così chiudo tutto e corro da Catia.

«Che ci fai qui a quest’ora, Gaia? E le lasagne di tua madre?».

«Piantala di prendermi in giro, Catia, e preparami qualcosa, dai».

«Va bene, va bene. Guarda che tra poco rientra Kofi, l’ho mandato a fare una commissione qui vicino. Non sei curiosa di conoscerlo?».

«Certo che sì».

«Allora appena arriva te lo presento. Un’insalata mista va bene?».

«D’accordo. È avanzata un po’ della tua proverbiale giardiniera?».

«Per te, sempre».

Mentre gusto estasiata il mio pasto, Kofi torna in piola con un vassoio vuoto in mano, che appoggia sul bancone. È proprio nero, nero come la pece. Indossa una divisa piuttosto semplice: una maglietta bianca, una paio di pantaloni rossi slavati e un grembiule nero legato sui fianchi. In testa ha quei trucioli che mi piacciono tanto. Non so se si chiamano davvero così, fatto sta che incorniciano bene il suo volto spigoloso su cui spiccano occhi tanto grandi e vividi da mettere in soggezione chiunque. Mi si avvicina e allunga una mano, sorridente.

«Tu devi essere Gaia. Catia è tutta la mattina che mi parla di te».

Ricambio il gesto di saluto, mentre già sento le guance ardere di imbarazzo.

«Sì, sono io. Piacere».

La sua guancia è ora vicina alla mia, sfiorandola appena prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Tre adorabili baci, vado nel retro galleggiando. I suoi modi come cameriere sono goffi, ma ha portato una ventata di freschezza che gli perdonerei qualunque errore. In fondo, è il suo primo giorno di lavoro.

Marisa è lì da chissà quanto tempo a bere il suo chinotto ghiaccio e limone. Cosa avrà da ridere di continuo a qualunque cosa dica Kofi, lo sa solo lei. Tony invece arriva un po’ più tardi del solito, con il suo cappello di paglia sdrucito in testa e l’aria troppo trascurata. Da quando ha perso sua moglie, tre anni fa, non ci sta più tanto con la testa, ed è un peccato, perché quando è in vena è davvero simpatico. Al nuovo arrivato non fa nemmeno caso e lo saluta come se fosse qui da sempre. Poi, prima di sedersi, ordina il suo solito bicchiere di bianco, «Fermo, mi raccomando». Si accomoda al tavolino accanto al muro, vicino all’ingresso, dove un paio di uomini disturbano il suo meditare, discutendo ad alta voce sul marciapiede davanti alla Piola. Qualche scambio ulteriore di battute e varcano la soglia, dirigendosi direttamente al bancone. L’uomo con la cartelletta nera sotto il braccio allunga una mano a Catia, in segno di saluto. Lei non ricambia subito il gesto, non certo per maleducazione, piuttosto perché non lo ha riconosciuto. Poi improvvisamente un ricordo le strappa un’immagine e un nome dalla memoria.

«Presidente Sottecchi, che piacere» e così facendo, in Zona Cesarini, allunga anche lei la mano a ricambiare il cordiale saluto.

«Signora Bruzzo, lasci che le dica quanto mi rende orgoglioso che nella nostra Circoscrizione ci siano persone tanto nobili. Brava, Catia. Brava!». Nemmeno termina l’ultima parola che l’uomo che lo accompagna, il nuovo parroco del quartiere, subito prosegue gli elogi.

«Sono d’accordo con lei, caro Presidente, al punto che ne parlerò durante l’omelia di domenica prossima. Cara Catia, lei ha compiuto un gesto di autentica solidarietà e fratellanza, tutti dovrebbero emularlo».

«Grazie di cuore ma, davvero, è eccessivo. Si tratta solo di lavoro. Peraltro il Comune si è impegnato a contribuire in parte alle spese. Insomma, non c’è niente di straordinario. Vi va una cioccolata calda?».

«Ma certo, con piacere!», rispondono il presidente e il parroco, all’unisono. Poi d’improvviso Tony, l’uomo con il cappello di paglia, ha un sussulto che sfocia in un solenne rimprovero.

«Comodo, eh, predicare agli altri l’emulazione, signor parroco. Emulate voi, piuttosto!».

Sbatte con forza il bicchiere di vino bianco sul tavolo, schizzando qua è là il suo contenuto. In preda alla furia, il cappello cade sul pavimento e Tony resta con la bocca spalancata.

«Tony, per favore, calmati! Scusatelo, è colpa mia, non avrei dovuto servirgli il solito bicchiere, oggi mi sembra più confuso che mai». Catia prova a recuperare la situazione, ma Tony non molla.

«Bisogna smetterla con le chiacchiere! Tutti dovremmo fare qualcosa».

Ascolto la discussione dal retro, protetta dalla parete che divide il bar dalla libreria. «Altro che confuso», penso, «a me Tony pare lucidissimo».

Le sue sagge parole hanno fatto calare un imbarazzante silenzio. Forse dovrei alzarmi e andare di là, ma ecco che Kofi mi si para davanti.

«Posso stare un attimo nel retro con te, Gaia?»

«Certo, Kofi. Come ti senti?»

«Come un animale allo zoo».

«Capisco. Capita anche a me a volte».

«Sul serio?».

«Sì. Posso farti la solita domanda scomoda?».

«Dimmi pure, che segreti vuoi che abbia».

«Perché hai lasciato il tuo paese?»

Kofi si siede sulla sedia libera accanto alla mia e appoggia il gomito sul tavolino, per sorreggere il capo. Il suo volto ha cambiato espressione e solo ora mi accorgo che ha una lunga cicatrice dietro l’orecchio destro.

«Hanno ucciso mio padre. E avrebbero ucciso anche me, se non fossi scappato».

Vorrei dirgli che mi dispiace, ma capisco che non servirebbe a nulla. Così taccio, mentre lui, ripreso fiato, prosegue.

«Sei sposata?»

«No. Ma avrei voluto».

«Io avevo una moglie. E una bambina. Ma loro, durante la traversata, non ce l’hanno fatta».

«È terribile. Come si fa a vivere, dopo?».

«Come in un incubo. Non ne sei pienamente consapevole, vai avanti e basta. Il dolore è un ladro di sogni, Gaia».

«Per sognare, Kofi, bisogna avere speranza. Tu ne hai ancora, di speranza?». In realtà, lo stavo chiedendo a me stessa.

«Spero che un giorno tutto ciò che è successo a me e alla mia famiglia, non accada più. E tu puoi aiutarmi».

«Aiutarti? Come?».

«Per esempio insegnandomi a scrivere nella tua lingua. Al campo non c’è mai tempo per queste cose».

«Non credo di esserne capace. Non l’ho mai fatto».

«Se la pensi così, Gaia, vuol dire che anche a te serve un po’ di speranza».

Lo guardo e so che ha ragione. Lui mi afferra la mano ed io sento il corpo gelido, impietrito. Poi le mie dita si distendono e le gambe smettono di tremare. Sento distintamente il cuore esplodermi nel petto. Sono di nuovo io.

«Dimmi una cosa, Kofi: perché vorresti imparare a scrivere?».

«Perché la mia storia, la nostra storia e quella di tutte le famiglie che fuggono la morte attraversando il mare, è giusto che siamo noi a raccontarla».

Kofi si alza e torna al lavoro, mentre io non riesco nemmeno a respirare. Lo sento promettere a Marisa un barattolo di burro di karitè puro, che pare faccia miracoli con le rughe del collo. Non ho nemmeno lontanamente idea di cosa abbia passato, ma so che conquisterà gli altri clienti della piola così come ha conquistato me.

Quella sera stessa mi distendo sul letto a fissare il soffitto, cercando di prendere sonno, ma senza riuscirci. Improvvisamente vedo le donne cui sono stati strappati i figli, vedo soldi che passano di mano, vedo spari e morti, tanti morti, in un mare che non è più culla di vita ma custode involontario di corpi straziati dall’indifferenza e dalla paura. Per fortuna, a un certo punto il sonno mi solleva dal riflettere ancora sul grado della nostra indifferenza. Il giorno dopo ho le idee piuttosto chiare. Non mi resta che andare a prendere accordi in ufficio con il Direttore.

«Buon giorno Piermario. Avrei una cortesia da chiederle».

«Ti ascolto, Gaia».

«Avrei bisogno di prendere qualche giorno di ferie».

«Ferie? Adesso? È successo qualcosa a tua madre?».

«No, fortunatamente no. È che devo dedicarmi a un progetto urgente».

Il Direttore facente funzioni non mi ha mai chiesto una sola volta le ragioni delle mie assenze, nemmeno oggi fa eccezione.

«D’accordo, Gaia. Fai ciò che devi, me la vedo io con il lavoro e con Marina».

Esco dall’ufficio postale con una sensazione che conosco appena. Forse somiglia alla felicità. Appena arrivata in piola vedo Marisa che se ne sta silenziosa in disparte, apparentemente immersa nella lettura delle sue riviste. Tony fissa il suo bicchiere di vino bianco ormai quasi vuoto, mentre Catia è indaffarata, sebbene non abbia le sue solite fossette sulle gote.

«Ehi gente, sapete la novità? Kofi mi ha chiesto di insegnargli a scrivere in italiano e ho deciso di accettare. Cominciamo oggi! Ho anche portato la mia vecchia grammatica italiana. Sì. è un po’ polverosa, ma farà il suo dovere». Mi osservano mentre maneggio il vecchio e voluminoso tomo e solo allora mi accorgo che in piola non c’è traccia di Kofi.

«Dov’è Kofi?», chiedo, mentre appoggio la borsa sul bancone e mi sfilo la giacca, gettandola su un tavolino lì accanto. Finalmente Catia mi guarda.

«Forse sei tu che non sai la novità, Gaia». No. Evidentemente non so nulla e la cosa mi irrita non poco. «Che cosa aspettate dunque, ditemela, questa novità». Catia prende fiato e risponde alla mia domanda accigliata. «L’hanno portato via».

«Chi hanno portato via? Kofi? E perché, ce l’hanno appena affidato».

«Non lo so Gaia, mi hanno detto che devono rimpatriarlo e basta. Sono venuti un’ora fa. Lui ha lasciato questa per te».

Catia mi allunga una penna stilografica dal colore blu cangiante, sembra quasi madreperla, chissà come l’ha avuta, Kofi. È malandata, ma ancora funzionante. Guardo la penna e poi guardo Catia, attonita. Mi sento come un palloncino colorato trapassato da un ago.

«Cosa gli succederà, adesso? Non lo rivedremo mai più?».

«Credo di no, Gaia. È finita».

In fondo intorno a me le cose sono le stesse di sempre: la vetrina piena di libri, gli scaffali di noce scuro stracolmi di leccornie, il bancone e le brioche nell’espositore che mi fanno l’occhiolino. Eppure tutto è cambiato. Una parte dell’anima di tutti noi se n’è andata.

Resta solo lo spazio che Kofi ha lasciato vuoto, laggiù, dietro il bancone, senza che nessuno di noi possa colmarlo.


Allora, fremo di curiosità: vi è piaciuto?

Il racconto è lunghetto per un post, se volete scaricarlo e leggerlo con calma più tardi, ➡ ecco la versione pdf di “Ladro di sogni”!

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13 Comments

  • Barbara

    Bel racconto. Mi piace Tony, quello del bianchetto, che pure a me sembra lucidissimo. 😉
    Avrei preferito un finale diverso, o vorrei sperare che Kofi viene rimpatriato perché la situazione nel suo paese è cambiata. Ma ahimè, la storia, quella vera, è un’altra.

    • Elena

      Cosa devo dirti Barbara, i finali lieti non fanno per me. Forse vedo troppe cose che non mi piacciono e che scivolano via sulla pelle degli altri. Scrivere è una delle poche forme di ribellione che mi è rimasta. Non sappiamo cosa sia successo a Kofi ma sappiamo cosa succede a ciascuno di noi quando rifiutiamo il cuore dell’altro, qualunque colore abbia. Un abbraccio mia cara, ti saluto Tony 😉

  • brunilde

    Un bel racconto che si fa leggere l’un fiato con il finale che spiazza e sorprende. Grazie per avercela fatto leggere!

  • Grazia Gironella

    Un bel racconto, in cui metti a contatto la dolcezza del tuo amore per la tua città con il grande mondo che bussa alle sue porte. Forse avrei voluto che Kofi avesse partecipato alla storia un po’ più a lungo… ma allora il finale sarebbe stato ancora più triste. Grazie!

    • Elena

      Ciao Grazia, è un piacere ricevere una tua opinione su un mio scritto. Si, il racconto è è sbilanciato sulla descrizione del territorio, ma era necessario per corrispondere alle richieste dell’editore. Kofi poteva essere più presente, in effetti mi accorgo che sta diventando una mia cifra, diciamo distintiva, quella di assegnate a un personaggio appena visibile ma tratteggiato lo compito di consegnare un messaggio a chi legge. Un pò come il vecchio con il Bastone di Così passano le nuvole. Ma questo in effetti è un racconto… Ci sono penso su

  • newwhitebear

    il racconto è ben strutturato e si legge che è un piacere. Nervoso e dolce, ti trascina in un mondo quello della solidarietà assai difficile capire che quello che viene fatto è puro altruismo.
    Un finale amaro che afferma l’incapacità dello stato a gestire questi flussi migratori.
    Complimenti.

    O.T. leggo ‘Cero che ha una fantasia’ Forse volevi scrivere ‘Certo che ha una fantasia’

    • Elena

      Ciao Giampaolo, grazie per averlo letto, sono contenta che sia stato piacevole. Come spesso succede per i miei racconti, qui la denuncia è forte, come giustamente hai colto. Avrei voluto descrivere meglio il centro di smistamento di Settimo Torinese, di cui cui, pur essendo a pochi chilometri da casa, non sappiamo nulla. È inquietante e ricorda qualcosa… Eppure basterebbe poco… Kofi è un personaggio reale, come lui tanti, migranti o no, che chiedono solo di lavorare e fuggono da guerre e miserie che il mondo evoluto provoca. Certo che ogni tanto dovrei scrivere qualche racconto divertente, i primi erano tali poi mi si è invertita l’ispirazione . Grazie, buona serata

  • rosaliap

    Un racconto intenso che emoziona senza trasudare emotività, proprio come piace a me. Dentro scorrono vita, ideali e sentimenti, credo che ti appartengano profondamente. Grazie per questo bel regalo di fine settimana ^_^

    • Elena

      Ciao Rosalia, grazie a te per averlo letto e apprezzato. È bello quando attraverso la scrittura riusciamo a comunicare esattamente i nostri sentimenti. I tuoi riscontri come quelli delle altre mi confortano. Grazie, buon fine settimana anche a te

  • Banaudi Nadia

    Dolce e amaro come una sberla al posto del bacio che ti aspetti. No, giuro mi hai lasciato del tutto inerme davanti al finale, e io che speravo in una storia a lieto fine… Molto realista purtroppo. Quella penna sarà ben più che un ricordo, sono certa.

    • Elena

      Ciao Nadia, purtroppo le storie di queste persone non finiscono quasi mai bene. Ma qui mi pare che il danno sia reciproco. Era il senso della storia, sostenere come sia chiara esprime solidarietà sia chi la riceve ne beneficino, sebbene in modo differente. Grazie per averlo letto e vissuto. Se solo potessimo avvicinare il dolore, sono certa che potremmo comprenderlo meglio. Un abbraccio

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