Sono tornato per restare
Storie libri e racconti

Sono tornato per restare

Dopo un periodo di riposo dalla scrittura creativa, torno con un racconto nato da un esercizio di scrittura cui mi sono dedicata durante la vacanza di inizio anno.

Ma ve ne parlo meglio dopo. Ora tuffatevi in questa porzione di storia della vita di Marco.

Buona lettura!

Sono tornato per restare


La tivù passa un vecchio film anni sessanta. Luce spenta, volute di fumo grigio come pensieri sospesi, nell’aria odore di pop corn ancora caldi e sapore di birra.

La poltrona di suo padre ha le spalle rivolte verso la finestra. I capelli arruffati spuntano dallo schienale in cui si nasconde, ogni sera, e da cui riemerge solo per spegnere di tanto in tanto un mozzicone di sigaretta.

Sua madre gli è accanto, un libro in mano fermo sulla stessa pagina da un po’ e gli occhiali sul naso, ultimo modello Dior. Si accarezza la base dell’anulare destro. Manca qualcosa ma a quanto pare nessuno ne sente la nostalgia.

Marco è fuori, in giardino, e li sta osservando. Si sfrega le mani ossute e screpolate e appiccica il naso pronunciato al vetro che si appanna un poco. Si scosta, poggiando i palmi delle mani aperti accanto alle guance, spinge, le braccia larghe.
Un movimento appena accennato, la mano di suo padre che solletica il lobo lucido di sudore, che poi afferra la bottiglia di whisky torbato che tiene accanto. Ne beve un sorso. Marco ne assapora il ricordo passando la lingua allappata sulle labbra.


Un rumore come di lavandino intasato lo distoglie dal sogno profumato e dolce di malto. Proviene dal suo stomaco. Se l’era quasi scordata quella sensazione di vuoto che produce suoni gutturali insopportabili, crampi e dolori forti che quando è in palla nemeno riconosce.

Se solo fosse ancora perso nel suo mondo parallelo ora non sentirebbe nulla. Laggiù non esistono case, né abiti, né compagni, ma solo freddo, buio, lampi negli occhi e una sensazione di bagnato che ti resta addosso.

Sua madre, è lei l’anello debole. Se solo riuscisse a parlarle, saprebbe implorarla, l’ultima volta ha funzionato. Deve solo convincerla ad aprire quella porta.

Lei sa che questa è la sua ora, hanno un patto. Come quando era bambino e ogni volta che volevano punirlo si nascondeva sotto il tavolo, aspettando che sua madre, pentita, si affacciasse e provasse a consolare il suo pianto.

“Dai mamma, sono qui, non mi vedi, lo sai che sono qui, questo è il tavolo, questo è il pavimento dove sono caduto, mamma, salvami, salvami ancora.”

Ma niente, lei sembra addormentata. Ora il film si interrompe e sul monitor appare una tavola imbandita, una famiglia, quella che Marco sa di aver avuto, una volta.

Sua madre sembra finalmente svegliarsi dal torpore. Si alza in piedi, afferra la bottiglia vuota di whisky e se ne va in cucina. E’ più piccola e più curva di come se la ricordava; è stato solo un mese fa, prima di essere beccato. Oggi sembra più vecchia di dieci anni.

“Ora verrà ad aprire e mi offrirà di entrare” pensa Marco, ma lei si adagia di nuovo sul divano senza nemmeno guardare la finestra né quello che resta di colui che un tempo è stato suo figlio.

“Ma guardala, poveretta. Con la pensione di papà poteva fare la regina e invece si è fatta fottere il cervello dal sistema. Scommetto che manco se ne è accorta. Io almeno a questo mondo di merda mi ci sono ribellato. E se mi sono fottuto il cervello, l’ho fatto di mia sponte.

Mi fai pena mamma, vieni ad aprire.

Sono tornato per restare.

Se hai voglia di abbracciarmi, come facevi un tempo, allora apri. Sbrigati, che aspetti!”

Marco, uno straccio addosso come camicia, accanto alla porta di casa, calcola il tempo che gli resta prima che i dolori gli torcano lo stomaco; sa che deve fare in fretta.

E’ stanco marcio di vecchi bavosi appostati nelle vie buie intorno alla stazione, o di lavoretti facili facili che possono solo fruttargli la prigione, come l’ultima volta, ormai un mese fa.

Sua madre è la sua ultima spiaggia.

Bussa alla porta. Due volte; una pausa; bussa di nuovo. E’ il segnale.


Si tratta di minuti e lei arriverà sull’uscio con ciò di cui ha bisogno.

Lui le giurerà che quella sarà l’ultima. Poi tornerà il suo bambino, quello che rimediava uno zoccolo in testa se faceva tardi, la notte, per poi addormentarsi tra le sue braccia.

Bussa ancora, due volte, ma non succede niente. Torna a spiarli dal vetro.

Il film è già ricominciato ma sua madre è ancora lì, sul divano, con gli occhiali sul naso e il libro aperto sulla stessa pagina di sempre, il capo chino, le mani giunte sulla carta ingiallita.

Gocce di sudore gli colano sul volto.

Urla, sempre più forte.

“Mamma, apri, sono io, sono tornato per restare!

Voglio la mia camera calda con ai muri tutti i miei vecchi poster del cazzo, e la tele vecchia di vent’anni che passa notizie di cui non me ne frega niente.

Voglio i miei abiti puliti, lo so che li conservi nel mio armadio, per te è come se me ne fossi andato ieri.

Sapessi la puzza di fogna che ho addosso, mamma. Voglio dire basta a questa vita, sarò buono, apri, mamma, che il viaggio non può tardare oltre!”
Si accascia, stremato, ai piedi della porta. Il suo lamento scuote le tranquille esistenze dei vicini. In quella che è stata casa sua, non vola nemmeno una mosca.

Il volto sfigura. La pelle diventa viola di rabbia, gli occhi si spalancano, gialli come il tuorlo d’un uovo.

“Voglio i miei soldi, maledetti!

So che avete messo da parte qualcosa per me, non fate finta di niente. Sono venuto a ritirarlo!

So che ho sbagliato, conosco i miei sbagli e vorrei cancellarli tutti, ci provo ogni giorno, giudici furiosi e severi, insopportabili censori, corvi dal becco aguzzo!

Sono tornato per restare, per sempre, ma se non volete che resti, almeno datemi ciò che mi spetta, datemi ciò che è mio!”

Esausto, tace. Sua madre posa il libro sul tavolino e aggiusta gli occhiali. Dallo schienale della poltrona il capo arruffato di suo marito si volta verso di lei. Le afferra la mano, lei lo guarda dritto negli occhi ma non vede niente.

“Non è giusto e lo sai”
“È cambiato, lo so, lo sento. Stavolta ci proverà davvero. Dobbiamo dargli un’altra possibilità”
Suo marito guarda la cicatrice. Corre tutto intorno alla tempia destra di sua moglie.
“Non è più nostro figlio. Non è più il bambino che abbiamo conosciuto.”

Marco sente le punte dei piedi congelarsi. Il freddo sale fino alle budella e gli prende la testa.

Disperato bussa più forte, sempre più forte, fino a spellarsi le mani.

Ecco, sua madre si alza e va in cucina. Afferra il barattolo dello zucchero, lo apre, dentro un rotolo di biglietti raccolti da un elastico. Li conta.

Sono abbastanza per tenerlo lontano ancora qualche settimana, forse un mese, sempre che non lo prendano prima.

“Rimettili a posto” dice suo padre.
“Lasciami fare, è l’ultima volta, lo giuro” risponde lei, sfigurata.
“Ma non capisci?”

Marco ha finito il suo tempo. Il vaso di Sanseviere sulla porta è un errore che non avrebbero dovuto commettere. Lo afferra e lo lancia contro il vetro che si infrange in mille pezzi.

“Stupidi che siete, cazzo di genitori borghesi, schiavi di un sistema di merda! Non sapete cosa sia la libertà, né riconoscere un uomo libero quando lo incontrate”
Sua madre piange, tra le braccia di un vecchio con i capelli arruffati e gli anni che gli pesano addosso, come macigni.
Una sirena occupa l’ultima parte di cervello che Marco ha libera. Si guarda intorno, confuso, le luci blu stanno per raggiungerlo.

Lei lo osserva dalla finestra con uno sguardo che significa tante cose. Marco per un attimo la riconosce e i loro sguardi si incrociano, insieme alle lacrime.

Scappa. La notte giù al fiume non lo spaventa. Domani si vedrà.

Sulla riva l’acqua verdastra odora di fogna. Marco si ferma, è stanco.
Pensa al barattolo di zucchero, al film in bianco e nero e alla casetta sugli alberi che aveva da bambino. Socchiude gli occhi, respira a fondo.


“Marco Salino!” chiede un giovane poliziotto.

Marco apre lentamente gli occhi.
“Un tempo lo ero”

“Metteremo in galera quello allora. Chissà che l’altro non si salvi.”

Come nasce il racconto

 

Ho cominciato la lettura di un saggio trovato in rete che si chiama “Corso di scrittura creativa. La grammatica dell’anima” di Arsenio Siani.

Dedicherò a questo testo, su cui sto ancora lavorando, qualche riflessione ulteriore, più avanti.

Uno degli esercizi proposti era proprio quello di partire da un’immagine del grande Andrea Pazienza, fumettista italiano straordinario, scomparso troppo presto.

 

Che ne dite, vi piace? E’ in grado di colpire la vostra immaginazione?

Partendo da questo fumetto, Arsenio Siani fornisce un esempio di come svolgere il compito.

Io lo leggo e non mi piace.

Nemmeno la vignetta mi è piaciuta subito. La prima reazione è stata rilevare la distanza storica da un contesto che ho visto avvenire, molti anni fa, durante la mia adolescenza e che ho quasi dimenticato.

Insomma, un inizio tutto storto per un racconto!

Ma sapete come succede: quando tutto ti allontana da qualcosa, beh, è il momento, a quella cosa, di avvicinarsi.

Ho imparato la verità profonda di questa affermazione molto tempo fa. La applico sempre e non mi sono mai dovuta pentire.

Così ho cominciato a scrivere. E poiché ero in viaggio, ho scritto su un mini taccuino che porto sempre con me, in cui ci sono anche gli appunti per un nuovo romanzo 😀 

Per ora è solo una vaga bozza, con annesso elenco di buone intenzioni.

Ma ecco il mio taccuino militante.

Non c’è ostacolo che possa fermarci

 

Se non è ottimismo della volontà questo…

 

E voi, care Volpi, vi siete mai lasciate ispirare da qualcosa che non avete amato per cominciare a scrivere?

 

24 Comments

  • Barbara

    Molto intenso, e hai saputo intervallare bene i momenti, le riflessioni con l’azione dei personaggi. La vignetta invece non mi piace, ma nel tratto (ho le mie preferenze anche lì), troppo spigolosa anche se magari era proprio quello l’effetto voluto.
    Alla domanda… si, tanti tanti anni fa non mi piaceva un finale, ho amato il libro ma non in finale. Allora ho cominciato a scrivere il numero due, come poteva proseguire la storia. Mia sorella commentò con un “cambia lavoro”, nel senso di mettermi a scrivere. 🙂

    • Elena

      Cara barbara, ha ragione tua sorella, è una vita che te lo diciamo! Ti tocca pensarci! 😀
      Grazie per le belle parole. Anche ame la vignetta non piaceva, ma alla fine è venuto fuori un buon racconto… Insomma, mai dire mai…

  • Banaudi Nadia

    Racconto molto intenso e anche molto realistico purtroppo. Mi piace soprattutto nella parte finale, in quel avvicendarsi continuo dei personaggi che portano alla chiusura. Mi piace tantissimo come hai messo la parola fine.
    Io al momento non sto scrivendo dunque non ho nulla per la testa o in ballo, ma sì lo ammetto, l’ispirazione spesso avviene proprio con cose che inizialmente si detestano, quindi direi che un po’ ti somiglio.

    • Elena

      Grazie cara Nadia, e bentornata sul blog! So che la tua vita è diventata molto piena e ti sono grata per aver ancora voglia di commentare e di farti sentire da queste parti 🙂
      Grazie per le belle parole che hai speso per la mia scrittura (ancor di più per il vocale). Siamo simili? Forse. Io ho dovuto forzare un po’ la mano. Se avessi ascoltato il mio istinto non avrei mai scritto di un argomento che in quel momento non sentivo. Ma ho cercato di immedesimarmi e insieme alle immagini della mia infanzia è venuta fuori la storia.
      Felice che sia andata a buon fine, non è semplice scrivere di getto. Baci

  • Luz

    Funziona, Elena. Non rispondo sempre a post di racconti inventati dall’autore/autrice. Rispondo se c’è qualcosa che mi piace al suo interno. In generale, smetto di leggere i racconti leggeri, quelli che hanno al loro interno un dramma personale invece mi piacciono, me ne sento trascinata.
    Leggo a voce alta. Come se fosse un monologo, e… funziona. Certo, non è perfetto, ma la tua scrittura ha un ingranaggio coinvolgente.
    Credo che sia un ottimo esercizio di scrittura ispirarsi a un’immagine.

    • Elena

      @Luz davvero lo hai quasi… Recitato? Credo sia la prima volta che mi capita e mi sento molto molto emozionata! Grazie di ❤. Non sono incline a usare questo esercizio per migliorare la scrittura ma di certo da oggi riconsidererò l’intera faccenda… Buona serata

  • newwhitebear

    Per il momento mi limito a rispondere all’ultima domanda.
    No. Se non mi piace la mente è arida. Spesso l’idea nasce da una lettura – giornale o libro – altre volte vedendo un’immagine. Rare volte da qualcosa di indefinito

  • Grazia Gironella

    Bel racconto, e bella anche la vignetta da cui ha avuto origine. Credo che non mi sia capitato di cercare argomenti che mi disturbano. In bocca al lupo (sottovoce) per il nuovo romanzo. 🙂

    • Elena

      Ciao Grazia, grazie per gli in bocca al lupo e per l’apprezzamento al mio racconto. Talvolta gli argomenti che ci disturbano sono in grado di smuovere qualcosa. Se riusciamo a capire cos’è , forse possiamo arricchire il nostro linguaggio letterario e di narratrici. Che ne pensi?

  • Brunilde

    Il racconto mi piace molto, è scritto bene, arriva. Mi ricorda…Pastorale americana di Roth: il grande tema dei figli, cresciuti con amore nel corso dell’infanzia, che poi prendono strade inaspettate fino a costringere i genitori a una dolorosa e disperata difesa di sè e del piccolo bambino amato e forse perduto, ma mai davvero rinnegato.
    Non credo riuscirei a scriverne, è un argomento che tocca un mio nervo scoperto, rievoca vecchi fantasmi, le mie prime difese d’ufficio ( tutti tossici, all’epoca ) paure superate ma mai dimenticate ( le ribellioni adolescenziali di mia figlia).
    Il mio primo libro sul Madagascar, Mora Mora, è nato da un amore – odio, da una fascinazione rabbiosa verso una realtà contraddittoria e difficile. Ma non so se riuscirei a scrivere proprio di qualcosa che non amo per niente!

    • Elena

      Accidenti Brunilde, il paragone con pastorale Americana mi imbarazza moltissimo sai? Prima di tutto perché lìha scritto Roth, un gigante della letteratura americana, e in secondo luogo perché è uno dei pochi libri che non sono riuscita a finire! Sì, lo so, non dovrei dirlo visto che l’hai amorevolmente citata, ma è così. Lo consideravo un polpettone, prolisso come molti scrittori americani, ruvido e cupo. Che io sia diventata lo stesso? Che i ricordi, legati alla mia infanzia, di una città in cui la droga la misuravi ogni giorno nelel piazzette davanti alle parrocchie e nei vicoli bui dove dovevi fare lo slalom tra le siringhe, siano stati così lungamente conservati dentro di me da venire fuori, così, ruvidi e duri come i miei ricordi?
      Sarà. Anche io credevo di non poter scrivere su questo argomento. Poi ho visitato gli angoli bui della mia mente e ho trovato le parole per esprimere una parte dei miei timori. Gli altri li tengo ancora con me. E tu?

Dicci la tua

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: