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Mahabharata, le similitudini dell’amore

L’altro giorno ho terminato l’ennesima rilettura di Càscara e ora è inviato all’editore per curarne la pubblicazione. Ho vissuto questo momento nella mia fantasia così tante volte che ora mi sembra un déjà vu.

Il punto è che rileggendolo mi sono resa conto di fare un uso importante di figure retoriche, in particolare, di similitudini e metafore. Il tema di questa rubrica del blog, forse non a caso!

Una consapevolezza che arricchisce il punto di vista sulla mia scrittura e che mi permetterà di scrivere tra qualche mese per la rubrica “Le similitudini dell’amore” un meme tratto dal mio nuovo romanzo, Càscara!

Oggi invece desidero parlarvi di un monumento della letteratura indiana che ho scoperto per caso, grazie all’unico quotidiano cui al momento sono abbonata, Domani e all’ottimo articolo di approfondimento scritto da Piergiorgio Odifreddi che trovate a questo link.

Le Volpi affronteranno il Mahābhārata, uno dei poemi epici indiani più importanti che detiene una sorta di record mondiale per lunghezza e complessità del testo, per concentrarci sulla rappresentazione di ciò che è eterno e immutabile: l’amore.

In particolare, ci concentreremo sulla descrizione dell’amore attraverso le immagini, potenti e dai significati simbolici come solo il mito può assegnare e far durare tanto a lungo.

Mahābhārata, le similitudini dell’amore

Comincia così il terzo post della rubrica dedicata alle similitudini dell’amore, con un verso breve e potente che offro subito alla vostra attenzione. E’ dedicato a Draupadi, la principale protagonista del poema.

La citazione

I suoi occhi sono grandi e profondi come il blu dello zaffiro
Le sue labbra sono morbide come petali di rose
Il modo in cui cammina è capace di suscitare tumulti

Le sue suggestioni

Da questi pochi versi possiamo avere un assaggio della capacità degli autori di evocare immagini potenti legate alla bellezza e all’amore.

La comparazione delle parti del corpo alla bellezza della natura e agli eventi, tumultuosi e trasformanti, che tale bellezza può determinare.

Ci sono molte chiavi di lettura che possiamo utilizzare per “leggere” il significato simbolico di questi versi.

Ve ne offro una, coerente con la cosmogonia vedica e che può darci l’opportunità di sperimentare altri luoghi della conoscenza e di interpretare il tutto con nuovi strumenti.

Draupadi, la giovane andata in sposa a cinque fratelli, rappresenterebbe Kundalini, l’energia latente pronta ad esplodere , a risalire, generando tumulti, mentre ognuno dei fratelli rappresenterebbe una diversa qualità positiva dell’Anima, fortemente caratterizzata nello sviluppo del racconto.

Il simbolismo dei cinque fratelli sposati con un’unica donna significa che l’energia ha bisogno d’essere “sposata” con queste qualità positive, per potersi innalzare attraverso i chakra e raggiungere così l’Assoluto.

E’ questo l’amore? O sono le sue conseguenze?

Amore e energia sono sinonimi? Insieme sono capaci di innalzare l’esperienza umana verso l’assoluto, il trascendente?

Qualche elemento di connessione con il celebre Cantico dei Cantici, a me molto caro e di cui ho parlato nel post “genitore” di questa rubrica, qui, pare evidente. Ma il dibattito è aperto.

Per condurlo al meglio, ecco qualche riflessione e approfondimento sul Mahābhārata, la sua trama, la sua storia, la sua importanza nella cultura indiana e anche nella nostra.

Buona lettura.

Il mito, la vita, l’amore

La fantasia di quegli antichi bardi è fresca, inesauribilmente fervida e feconda, addirittura stupefacente. Noi oggi quella fantasia la abbiamo perduta, forse perché a furia di compiere cose fantastiche: corrispondere senza nessun tangibile mezzo da un continente all’altro, traversare l’aria con la stessa facilità e sicurezza che il mare con navi poco meno veloci del pensiero, siamo diventati incapaci di sbrigliare l’immaginazione. 
Oggi le cose fantastiche si fanno, non si pensano più. I nostri scrittori d’immaginazione più si sforzano d’essere originali e più restano aderenti, appiccicati alla realtà. 
Noi non sappiamo più sognare ad occhi aperti, ma vegliamo, continuamente vegliamo. La vita reale s’è impadronita di noi, ci possiede, c’incatena senza rimedio. 
Chi di noi è più buono a comporre una fiaba veramente originale e divertente? Sembra che le ali del velivolo abbiano tarpato le ali della fantasia. 

La fantasia è propria dei primitivi, e primitivi non siamo più né possiamo più tornare, per quanti siano i nostri esasperati sforzi. 
Se vogliamo sognare, uopo è far capo a un antico rapsodo e tendere l’orecchio a quelle che un Cardinale rimproverava all’Ariosto come corbellerie, mentre erano e sono la quintessenza della poesia. 
E di coteste corbellerie i bardi mahàbhàratiani sono, senza nessun dubbio, i più fecondi. Cominciano a sognare e a farci sognare già dal racconto che ci tessono dell’origine e delle gesta del preteso unico autore del Mahàbhàrata. 

Reale Accademia d’Italia , 1933 prefazione all’edizione del Mahàbhàrata tradotta da Michele Kerbaker

Sono sempre stata attratta dalla storia dei miti. Di recente ho acquistato quello che considero un libro fondamentale nell’analisi e approfondimento del significato simbolico dell’eroe nei miti, L’eroe dai mille volti, di Joseph Campbell . La frequentazione dell’autore con la psicanalisi e il legame del mito al sogno rappresentano una interessante chiave di lettura di cui non vedo l’ora di riparlarvi.

Campbell infatti, citando Carl Gustav Jung, sostiene che il mito sarebbe un sogno ad occhi aperti, il sogno una continuazione del mito ed entrambi la manifestazione di motivi arcaici, in qualche modo trasversali alla cultura e per ciò stesso immanenti. Ciò che lo stesso Jung chiamerà inconscio collettivo.

Applicare questo punto di vista al Mahābhārata a mio avviso è utile per comprendere come la grande epica, la narrazione di saghe familiari antiche che costituiscono gli archetipi della società e della conoscenza, non è appartenuta solamente a grandi autori come Virgilio e Omero, che pure amo moltissimo, ma è patrimonio dell’umanità.

Un’umanità che è coscienza collettiva simile e costante attraverso i secoli e le aree geografiche per raccontare l’essenza dell’esperienza umana: la vita e l’amore.

Questo viaggio può portarci alle radici della storia dell’uomo così come le conosciamo, aprendo una finestra su un mondo per comprendere quanto la cultura cui apparteniamo sia “piccola” e in qualche modo modesta se paragonata ai grandi processi della storia.

Un esercizio di umiltà che ci aiuta ad uscire dall’etnocentrismo per guardare alla ricchezza che l’umanità nei secoli ha saputo generare.

La grande storia dei discendenti di Bharata

In sanscrito la parola “Mahābhārata” si traduce con “La grande storia dei Bharata” o “La grande storia dei discendenti di Bharata”, antica tribù indiana con cui, a tutt’oggi, è identificato il nome tradizionale dell’India. Si tratta, come già detto, di uno dei più grandi poemi epici indiani, datato dagli storici a più di duemila anni fa.

Insieme al Ramayana, è uno dei maggiori poemi epici della storia indiana. Nella versione integrale a noi conosciuta il Mahābhārata consta di circa 100.000 strofe, più o meno una mole di versi circa 7 volte maggiore dell’Iliade e l’Odissea messe insieme.  Il Mahābhārata non è solo un poema, ma uno dei principali  testi sacri per la religione Induista.

Il Mahābhārata rappresenta la storia stessa di quel paese, uno dei più antichi la cui civiltà ci ha lasciato perle di saggezza come i veda, di cui il Mahābhārata è considerato il quinto veda, affiancato agli altri quattro che costituiscono la “bibbia” dell’induismo.

La forza di questo poema epico o itihāsa, ovvero “così fu davvero”, che amplia il significato di poema epico così come lo conosciamo, è la scelta di narrare l’eterno conflitto tra il bene e il male.

Il valore di quest’opera sta non solo nel suo contenuto, ma nella forma, scritta, in un periodo in cui la tradizione orale era di fatto l’unico mezzo di trasmissione del sapere. In alcune culture la narrazione orale della storia della comunità sarebbe proseguita ancora per molto tempo, fino ai giorni nostri. Ne sono un esempio i griot, di cui ho parlato qui come esempi sempiterni di storyteller.

La scrittura è lo strumento per comunicare la storia, gli usi e i costumi, la cultura di un popolo e le sue tradizioni. I valori che fondano una comunità e che la tengono insieme.

Per questo il Mahābhārata è un poema che parla d’amore!

L’effettivo accadimento di questi avvenimenti è irrilevante ai fini della funzione che il poema deve svolgere, ovvero non registrare fatti storici ma farli diventare paradigmi che possano funzionare da istruzioni, valori, una cosmogonia che unisce, fortifica, consolida le basi della comunità indiana e la loro solidità e coesione nel tempo. Fissa le regole del comune vivere e lo fa attraverso l’uso di immagini, personaggi, simboli che entrano a ragione a far parte del mito.

Il poema cementifica la comunità, distingue il bene dal male, i comportamenti premianti da quelli da censurare. Una guida, morale, illuminata dalla vasta cultura che l’ha prodotta.

I rapporti che intercorrono fra i vari strati della società – sovrano/cappellano, brāhmaṇa/kṣatriya, genitori/figli, uomo/donna – sono descritti e regolati, minuziosamente. Quasi la metà del Mahābhārata è didattica, e il fatto che sia stato e sia ancora largamente rappresentato attraverso spettacoli teatrali, necessariamente più sintetici di quanto l’originale vorrebbe, lo dimostra.

La storia narrata dal Mahābhārata

Il Mahābhārata racconta la lunga e furibonda lite che contrappone la dinastia dei Pandava e quella dei Kaurava, due clan di cugini, rispettivamente di 5 e di 100 membri, condannati dal fato a uccidersi tra loro.

Per dare un’idea della complessità della vicenda, i cento Kaurava nacquero tutti dalla divisione di un unico enorme ovulo, che la madre partorì dopo una gravidanza durata due anni.

I cinque Pandava, invece, non erano in realtà figli biologici del padre, perché su di lui pendeva una maledizione per aver ucciso due gazzelle che si stavano accoppiando: se si fosse a sua volta accoppiato con una donna, sarebbe morto pure lui.

I personaggi principali sono sedici tra cui spicca Krishna, incarnazione di un dio in terra, che si schiera apertamente dalla parte dei Pandava, e sarà determinante per la loro vittoria finale, e che per la prima volta fa qui la sua comparsa nella mitologia indiana.

Proprio a questo poema si deve la sua futura autorevolezza: i due canti finali, un’appendice di 16.000 stanze alle diciotto del Mahabharata vero e proprio, costituiscono la storia della sua infanzia, la sua genealogia.

Sarebbe impossibile trattare in un solo post tutti i filoni narrativi che si intrecciano con quello principale, né le innumerevoli scene che perseguono uno scopo pedagogico, a vari livelli.

Attraverso lo svolgimento dell’azione mitica viene spiegato all’uomo come deve comportarsi, poiché nulla è casuale sulla terra, ma sempre rientra in un ordine divino, collocato in una concezione circolare del tempo in cui tutto va e tutto torna.

I profondi conoscitori di questa immensa opera ci suggeriscono che il suo simbolo non è il cerchio, ovvero il luogo fisico in cui tutto parte da un unto e lì vi torna, ma la spirale: quando il giro sta per chiudersi, ecco che si apre su un diverso livello.

Che ruolo svolge il narratore?

E’ colui che è capace di leggere la storia tra le pieghe morbide della spirale, di cui conosce l’intero ed eterno divenire.

Il simbolo della spirale credo offra interessanti suggestioni anche a chi si occupa di narrazione ai tempi moderni!

Alcuni temi e trovate del Mahābhārata

E’ interessante fornire alcuni esempi, che mi auguro possano generare altrettante riflessioni. Per esempio un tema che diventerà fondamentale nella società suddivisa in caste che ha caratterizzato l’India per secoli: la differenza sociale.

Il Mahābhārata fornisce istruzioni precise da questo punto di vista, nell’ottava 561, tradotta dal Kerbaker, colui che ha reso noto questo poema a noi occidentali:

Ed ecco come il Kerbaker traduce (ottava 561):

Si fa di nozze e d’amistà legame dove è uguale il sapere e la fortuna,  ma tra quegli ch’è sazio e quei che ha fame  esser non puote comunanza alcuna.  Ceto istruito e colto col gentame  rozzo, ignorante, mai non s’accomuna; 
Chi va in carrozza amico già non vedi  di chi è contento ognor d’andare a piedi!

Il senso di questi versi è piuttosto chiaro: l’amicizia e il matrimonio sono possibili solo tra uomini di eguale ricchezza e sapere.

Anche la narrazione dunque è veicolo di continuazione del principio sociale della separazione, una narrazione ancora oggi diffusamente rappresentata, in tutta l’India.

Il sari magico di Draupadi

Mahabharata, le similitudini dell'amore

Si ritiene che una delle ragioni per le quali i Kaurava persero la guerra di Kurukshetra sia dovuta alla crudeltà con cui tentarono di umiliare Draupadi.

Dopo la sconfitta a un gioco ai dadi truccato, in cui il futuro sovrano Pandava perde la propria libertà e quella della moglie Draupadi, messa all’asta, Dusshasana, il secondogenito Kaurava, vincitore, chiede il conto.

La sua volontà è quella di spogliare Draupadi davanti a tutti, tirandole violentemente il sari.

Inutile difendersi, la donna chiede aiuto a Krishna, che esaudisce la sua preghiera e fa in modo che la stoffa del sari di Draupadi si allunghi all’infinito.

Fino a quando il Kaurava, stremato e coperto dalle decine di metri svolte del sari, umiliato si arrese.

Ecco l’intervento del divino e una “trovata” davvero interessante che ci offre un mirabile esempio della capacità narrativa degli antichi bardi autori del poema.

L’espediente dello specchio

Altro espediente narrativo molto potente si trova verso la fine del poema, quando nel palazzo delle illusioni in cui i fratelli Pandava accolgono i rivali, si apre la scena dello specchio.

Chiunque vi guardi dentro, vedrà riflessa l’immagine del suo vero sé, ovvero la parte più autentica di chi si specchiano dentro.

Sono gli occhi dell’anima, la saggezza che guarda oltre, la verità che si rivela oltre ogni menzogna.

Taluni vedono un serpente, altri una scimmia, mentre il fratello che ha usurpato il regno vede se stesso come un lupo:

Colui che deruba gli altri dei propri diritti appare come un lupo

Il Mahābhārata e le riletture in epoca moderna

Questa mirabile opera ciclopica è giunta fino a noi grazie al lavoro di bardi che, di vita in vita, ne hanno ultimato e perfezionato la storia.

Ma dobbiamo a Michele Kerbaker, Torino, 1835, Napoli 1914, la minuziosa traduzione in italiano di questo poema antico, sviluppato in ottave dapprima abbozzate e poi rivedute e corrette da altri, dopo la sua morte.

Grazie al suo lavoro quest’opera è giunta fino a noi, attraverso forme narrative e artistiche distinte, che ne testimoniano la duttilità e l’importanza.

In India infatti questo poema è ancora rappresentato, anche nelle strade attraverso forme di teatro tradizionale, rappresentazioni che possono durare anche nove ore, una maratona sfidante per gli attori e per gli spettatori!

Il Mahābhārata  è anche una grafic novel

Di recente è scomparso Jean Claude Carrière, famoso drammaturgo che ha offerto al pubblico questa poderosa opera epica scrivendo il suo adattamento addirittura con una … grafic novel!

Carrière ha lavorato con Luis Bunuel (regista onirico del cui lavoro “L’angelo sterminatore” ho parlato in Il mondo fuori, come in un film di Bunuel) autore di un numero impressionante di opere, saggi e narrativa.

Durante un viaggio in India tra il 1982 e il 1985 alla ricerca di notizie su questo sacro testo, Carrière si rende conto di quanto esso avesse permeato la cultura indiana. Incontra numerose rappresentazioni di strada di parti più o meno consistenti della lirica religiosa, spesso con adattamenti in base alle influenze culturali e geografiche, che seguono l’impianto generale del testo.

Al rientro da quel viaggio, fatto insieme a Peter Brook, il più grande regista drammaturgo del dopoguerra, decidono di mettere in scena il Mahābhārata .

Nel 1985 la piece , della durata appunto di nove ore, viene rappresentata nel sito di una cava nei pressi di Avignone, il 7 luglio del 1985, per un tour durato ben quattro anni!

Brook e Carrière sono ricorsi ad un piccolo trucco narrativo, portando sulla scena Vyasa, il narratore della storia. Un trucco di cui fare tesoro, come scrittori, non trovate? 😉

L’influenza nella cultura religiosa occidentale

Fu poi rappresentato anche in una serie televisiva, molto in voga qualche decennio fa, che consisteva in ben 93 episodi, andati in onda dall’ottobre 1988 al luglio 1990, l’intera storia.

Fu un successo epocale, poiché la serie è stata vista da centinaia di milioni di persone.

In Europa si conosceva il testo già negli anni ’70, poiché il Mahābhārata  era il testo sacro per eccellenza degli Hare Krshna, la religione professata da George Harrison

Sentite un po’ cosa ci dice dei mantra il caro George…

Il film di animazione sul Mahābhārata  

Il modo più semplice per me di approcciarlo è stato attraverso una semplice ricerca su YouTube.

Qui ho trovato un film animato, piacevole e facilmente comprensibile grazie ai sottotitoli, che mi ha portato dentro un mondo che ha molti punti di contatto con il nostro. L’idea di coscienza collettiva, o inconscio collettivo se preferite, mi pare, dopo questa visione, più accessibile e concreta.

Un segno di speranza per una umanità che arretra e che forse può trovare in quei fili sottili che resistono al tempo il senso di una unità che vale la pena di esplorare.

Ed ecco il link al film, prendetevi due ore di pausa dalla vita ed entrate nel mito.

E per finire…

Ebbene care Volpi, questo lungo viaggio nei meandri del Mahābhārata  finisce qui.

Grazie a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi, in questo post molto più lungo del solito che ha richiesto molto studio e approfondimento ma che mi ha regalato suggestioni che travalicano il senso della scrittura da cui ero partita.

Spero inoltre che la similitudine dell’amore da cui è cominciato questo viaggio vi sia piaciuta tanto quanto è piaciuta a me.

Per quanto mi riguarda, questa lettura seppur incompleta del Mahābhārata  mi ha convinta che le immagini, rappresentate attraverso l’arte teatrale, narrativa o cinematografica, sono lo strumento più potente che abbiamo per parlare d’amore.

Saperle disegnare, con la penna, con il pennello o con la macchina da presa, rappresenta la sfida più alta che un autore si può assegnare: il racconto dell’amore.

La parola ora a voi, miei pazienti lettori:

c’è qualcosa del Mahābhārata  che vi ha trasmesso stimoli per la vostra scrittura? Avete amato e conosciuto poemi di tale complessità e bellezza?


Jean-Claude Carrière è uno sceneggiatore cinematografico e televisivo, scrittore, saggista, poeta, collezionista di storie provenienti da ogni parte del mondo. Noto per i suoi romanzi, i suoi libri sui film di Jacques Tati e un volume/intervista con Umberto Eco sulla “perennità” dei libri (Non sperate di liberarvi dei libri, La Nave di Teseo, 2017).


Vuoi partecipare con qualche tuo brano alla rubrica? Ecco le regole del gioco:

12 Comments

  • Luz

    Non lo sapevo! Eh non c’è niente da fare, la rappresentazione, la finzione scenica, in tutte le culture ha un potere enorme. 🙂

    • Elena

      Eh signora maestra teatrale, lei sì che può fare affermazioni di questo tipo! 😀
      Comunque potresti sempre ricavarci qualcosa di più potabile come durata ma molto molto interessante. Chissà come i ragazzi interpreterebbero questa “favola” epica così distante nella geografia e nel tempo?

  • Cristina

    Complimenti per lo splendido post e per tutto il lavoro non soltanto di lettura, ma di elaborazione che vi è dietro. Si nota subito che è frutto di un lungo lavoro e quanto tu tenga a condividere con noi la tua lettura. 🙂 Conosco il Mahabarata soltanto tramite il film di Peter Brook con Vittorio Mezzogiorno, girato interamente in interni, e per aver letto qualche passaggio, ma non l’ho mai affrontato per intero come hai fatto tu. Posso solo offrire qualche osservazione d’istinto, molto scarna nello spazio di un commento: è incredibile come questa narrazione, che racconta di un “banale” conflitto tra clan, riesca a generare questa sovrapposizione e questo proliferare di storie le più diverse. Il cenno all’Orlando Furioso dell’Ariosto mi ha riportato subito al poema, che sto studiando per l’esame di letteratura, e alla miriade di storie dei vari personaggi che si alternano sul palcoscenico narrativo e che l’autore abbandona e riprende con l’abile tecnica dell’entrelacement. E, come giustamente hai scritto, è straordinario come questi miti diventino patrimonio di un popolo, e nello stesso tempo abbiano dei fili conduttori comuni a qualsiasi latitudine: l’amore, la guerra, gli dei…

    • Elena

      Cara Cristina, grazie per il tuo apprezzamento ma devo precisare che il poema è davvero lunghissimo e ne ho ho letto molte parti ma non tutte. Detto questo, l’ho apprezzato proprio per la complessità e i vari livelli dei temi e storie trattate. Mi ha insegnato alcune caratteristiche ricorrenti nella mia teorie mitiche dei popoli che ragionano intorno ai conflitti, guerreschi, familiari, affettivi, con una sorta di continuità storico geografica davvero intrigante. Sono motori della vita delle comunità, rappresentano il ciclo eterno della vita e della morte. Ti ho pensata mentre lo scrivevo e non perché la prossima similitudine ti riguarda (che bello) ma per il tuoi interesse per la ricerca storica, come i tuoi romanzi dimostrano. Insomma, una ricerca che può essere fecondata da storie che sono apparentemente tutte diverse. Hai colto quello che volevo trasmettere. Ora potresti ambientarci un romanzo

  • silvia

    È un tema davvero interessante. Sono estremamente ignorante sull’arrgomento, per cui mi limito a leggere e ad imparare. Grazie per lo spunto. 🙂

    • Elena

      Cara Silvia, guarda io non sono un’esperta, mi sono solo appassionata di questo tema partendo da una semplice lettura che poi mi ha tirato dentro un mondo affascinante. Credo di aver solo messo il naso dentro, il mio viaggio è appena cominciato. Chissà, magari la prossima tappa sarà la tua 🙂 Un abbraccio e grazie per essere passata

  • Luz

    Caspita, Elena, che post argomentato a puntino! 🙂
    Di questa epopea mi sono sempre piaciuti i richiami a una femminilità mai banalizzata. Non è un caso che Kundalini abbia in sé quel potere, che anzi sia la Necessità perché l’uomo raggiunga la gloria o quello che può valorizzare la sua forza. Ci vedo un rispetto verso il potenziale femminile, o per meglio dire di quel “femminino sacro” che pervade tante culture.
    Di questa epopea mi piace il gusto per il racconto, per le trame stratificate, che vanno a costituire quasi o come spesso avviene, dei testi sacri.
    Mi piace l’immagine. L’esplosione di colori e forme e quel gusto per un’estetica raffinata, anche questo un aspetto sacro dell’espressione di sé.

    • Elena

      Ciao Luz, come ho avuto modo di ammettere altrove, questo post mi ha un po’ preso la mano :D… Ma ci stava, gli argomenti erano tanti e molto interessanti. La parte del femminile è senza dubbio la più forte. Krishna, che appare qui per la prima volta, sceglie un campo, una famiglia, e poi ne sostiene le componenti, specie le donne. L’escamotage del sari che non finisce mai è bellissimo e impedisce un ratto, una violenza, che in altre culture invece è celebrata, resa possibile. C’è un rispetto e un valore del femminino, come tu stessa noti, molto forte che chiaramente ci risuona. Hai ragione sui colori: sono i colori di tutta l’India, persino del suo cibo! Molto molto belli. E i versi, i versi sono così belli, questa è per me la sorpresa più grande. La loro bellezza eterna. Grazie per aver avuto la resistenza di leggere tutto fino in fondo! Ps: sapevi che il Maharabharata è rappresentato per le strade come uno spettacolo teatrale?

    • Elena

      Cara Giulia, grazie ancora per essere giunta fino alla fine. Mi sono resa conto della lunghezza ma a un certo punto avevo così tanto materiale che mi sono trovata a scommettere sulla resistenza delle mie amate lettrici per accogliere tutta la bellezza che ho trovato in questo testo, in colui che lo ha tradotto e in tutti coloro che nei secoli lo hanno rappresentato. Anche io li ho molto amati quegli episodi, ti garantisco , se vorrai un giorno entrare in questo mondo, che ve ne sono molti altri altrettanto potenti. Un caro saluto

  • Grazia Gironella

    Che emozione! Non mi capita spesso di vedere trattato da amici un argomento così straordinario. Ho letto una versione ridotta del Mahabarata (anche se non si direbbe, dalle dimensioni del volume…), ma mi hai fatto venire la tentazione di leggerlo per intero. Le suggestioni che offre sono infinite, in particolare se si conosce un po’ il contesto in cui si sviluppa una storia di questa potenza. Forse le scene che mi restano più impresse sono alcune tra Arjuna e Krishna, dio che prende la forma del suo cocchiere per istruirlo. Parlando di amore, però: sì, sono convinta che l’amore sia tutto e la chiave di tutto (dove l’amore romantico è un tipo di amore come un altro). Non esiste altro, ed è la cosa più difficile del mondo.

    • Elena

      Ciao Grazia, che bell’accoglienza riservi a questo post, grazie! In effetti la cosa che più colpisce sono proprio gli innumerevoli piani narrativi con suggestioni, trame e sotto trame veramente infinite, credo che attingendo da questi spunti si potrebbe scrivere della vita, attraverso qualunque genere, per sempre! Le scene dedicate alle battaglie sono davvero epiche, con descrizioni e personaggi numerosi e tragici. La parte più interessante sono le costellazioni familiari e la cultura che le sottende. La letteratura è un buon modo di conoscere la cultura di un popolo, quello indiano è sempre stato meno vicino a me, senza un particolare motivo. Avendo passato molto tempo a leggere di zen, confucianesimo, taoismo, e cultura samurai, e ancora prima di Africa, seguendo la mia formazione antropologica, prima o poi dovevo arrivare anche qui e chissà dove altro!
      Parlando di amore, i versi li trovo bellissimi, la similitudine del petalo semplicemente gorgeus (in inglese mi pare renda meglio). E il tema dei tumulti, quanto anticipa il resto e quanto esplicita della forza dell’amore! Grazie per il tuo passaggio

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